Il giornalista Stefano Cecchi ha detto la sua sul momento di Albert Gudmundsson. Questa l’analisi del gigliato sulle pagine de La Nazione.
Un’anima persa del limbo, di quelle che vagano indolenti senza una meta precisa, escluse da ogni possibilità di redenzione. L’immagine non è edificante eppure a questa rimanda la gara dell’altra sera di Gudmundsson, 45 minuti di vuoto cosmico senza mai un’iridescenza, un lampo di luce a rompere il buio sportivo. Perché di questa Fiorentina, Gudmundsson doveva rappresentare l’eccellenza, il sidol col quale si doveva lucidare e rendere splendente l’intera argenteria della rosa. Invece questa versione luccicante la si è vista troppo poco per potersi dire appagati.
La mezza gara con la Lazio, ribaltata da due suoi rigori. E poi la partita con il Milan, incendiata da un suo gol. Poco altro. Perché dopo l’infortunio nella gara di Lecce, quella che si è ripresentata è la sua versione pallida. L’ombra di un giocatore che all’inizio avevano paragonato a sua vastità Hamrin per quei calzettoni abbassati e quell’idea di ghiaccio pronto ad incendiarsi come un geyser prestato al calcio.
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