Il numero 10, simbolo che racchiude talento, responsabilità e carisma. Per la Fiorentina, questa maglia rappresenta qualcosa di ancora più profondo: un’eredità che attraversa generazioni, un filo conduttore che lega epoche diverse del club viola. Dal primo scudetto agli anni più difficili, passando per le notti europee indimenticabili, il numero 10 della Fiorentina ha sempre identificato i giocatori capaci di accendere l’entusiasmo del Franchi e di incarnare l’anima stessa della città. Ripercorrere questa storia significa rivivere settant’anni di calcio, emozioni e passione attraverso i piedi di campioni che hanno scritto pagine indelebili nella memoria dei tifosi viola.
La storia del numero 10 della Fiorentina inizia con un nome che i tifosi più giovani potrebbero non conoscere, ma che rappresenta le fondamenta di questa tradizione. Miguel Angel Montuori, centravanti argentino arrivato a Firenze nel 1955, fu il primo grande interprete di questa maglia e il protagonista di un’impresa storica: la conquista del primo scudetto viola nella stagione 1955/56.
Montuori non era il classico centravanti statico dell’epoca. Dotato di tecnica, velocità e fantasia, sapeva svariare su tutto il fronte d’attacco, creando superiorità numerica e disorientando le difese avversarie. In sei stagioni con la maglia viola, ha collezionato 184 presenze e 79 gol, numeri che testimoniano una continuità di rendimento impressionante.
Ma oltre ai freddi dati statistici, Montuori ha rappresentato qualcosa di più: ha dato il via a una tradizione che avrebbe legato per sempre il numero 10 ai fantasisti capaci di decidere le partite con giocate di classe.
Dopo Montuori, la maglia numero 10 passa sulle spalle di Giancarlo De Sisti, un centrocampista che ha incarnato un calcio diverso ma altrettanto efficace. Dal 1965 al 1974, De Sisti ha interpretato il ruolo di equilibratore, quel giocatore capace di toccare il pallone oltre cento volte a partita con passaggi corti e precisi. Campione d’Europa e vice campione del mondo con la Nazionale, portava in campo un’intelligenza tattica e una visione di gioco che anticipava i tempi. Non era il numero 10 che dribblava tre avversari, ma quello che orchestrava la manovra con lucidità e precisione.
Ma è con Giancarlo Antognoni che il numero 10 della Fiorentina raggiunge la sua massima espressione. Quindici anni con quella maglia, dal 1972 al 1987, rappresentano un record difficilmente eguagliabile. Le sue 429 presenze e 72 gol raccontano solo una parte della storia: Antognoni era pura eleganza in movimento, un centrocampista capace di essere pericoloso per qualsiasi avversario pur mantenendo sempre compostezza.
Il numero 10 ha sempre fatto sognare e raccolto enormi aspettative. I tifosi puntavano sul suo talento, sperando che un colpo di genio potesse cambiare il destino della squadra. Alcuni, travolti dalla passione, arrivano addirittura a seguire quote e pronostici. È fondamentale ricordare, però, che tutto questo deve essere fatto responsabilmente: il divertimento non deve mai trasformarsi in rischio eccessivo, e quando si gioca è importante affidarsi solo a casinò online sicuri.
Quello che rende Antognoni unico nella storia del numero 10 viola non sono solo i numeri o i trofei, ma il legame indissolubile che ha creato con Firenze. Anche oggi, decenni dopo il ritiro, la sua figura continua a rappresentare l’essenza della Fiorentina.
Se Antognoni rappresenta l’amore eterno, Roberto Baggio incarna l’amore impossibile. Arrivato nel 1985 a soli 18 anni, il “Divin Codino” ha giocato per la Fiorentina fino al 1990, collezionando 94 presenze e 39 gol. Ma questi numeri non possono raccontare l’intensità del rapporto che si creò tra lui e la curva Fiesole.
Baggio era il talento puro che tutti sognavano di vedere: dribbling ubriacanti, gol impossibili, giocate che sembravano sfidare le leggi della fisica. Con lui in campo, il Franchi si trasformava in un teatro dove ogni partita poteva riservare un colpo di genio. I tifosi viola non vedevano solo un fenomeno del calcio, vedevano il loro campione, cresciuto in casa, pronto a guidare la squadra verso nuove glorie.
Poi arrivò l’estate del 1990. La cessione alla Juventus per 30 miliardi di lire provocò rivolte in città, con manifestazioni che coinvolsero migliaia di tifosi. Non era solo la perdita di un grande giocatore: era il tradimento di un sogno, la rottura di un patto tacito tra un campione e la sua gente. Quella ferita non si è mai completamente rimarginata. Ancora oggi, quando si parla del numero 10 della Fiorentina, il nome di Baggio evoca sentimenti contrastanti: ammirazione per il talento, rabbia per come andò a finire, nostalgia per ciò che sarebbe potuto essere.
Dopo anni di transizione, il numero 10 della Fiorentina torna a splendere con l’arrivo di Manuel Rui Costa nel 1994. Il trequartista portoghese ha rappresentato un nuovo modo di interpretare quel ruolo: non più solo fantasia ed estro, ma anche visione moderna del gioco e capacità di adattarsi alle evoluzioni tattiche del calcio contemporaneo.
In sette stagioni, dal 1994 al 2001, Rui Costa ha lasciato un’impronta profonda sulla Fiorentina. Le sue 277 presenze, 50 gol e 20 assist raccontano di un giocatore completo, capace di segnare, far segnare e dettare i tempi della partita. Ma i numeri più importanti sono altri: due Coppe Italia (1995/96 e 2000/01) e una Supercoppa Italiana (1996), trofei che mancavano da tempo nelle bacheche viola.
Con Gabriel Batistuta in attacco, la Fiorentina di Rui Costa ha fatto sognare un’intera generazione di tifosi, arrivando a sfiorare traguardi che poi sarebbero sfumati per un soffio.
Quando lasciò Firenze nel 2001 per il Milan, i tifosi viola sapevano di aver perso qualcosa di speciale. Non un semplice campione, ma un maestro di calcio che aveva elevato il gioco della squadra a livelli d’eccellenza raramente visti prima.
Dopo l’addio di Rui Costa, la Fiorentina entra in uno dei periodi più difficili della sua storia. Il fallimento societario, la ripartenza dalla Serie C2, e poi la faticosa risalita verso la Serie A segnano anni in cui il numero 10 passa di mano in mano, senza mai trovare un proprietario degno di quella eredità.
Nella stagione 2001-02, Domenico Morfeo indossa la maglia nel momento più buio: la retrocessione in Serie B e il successivo fallimento del club. Nonostante le sue qualità tecniche riconosciute sin dai tempi dell’Atalanta, Morfeo colleziona solo 18 presenze e 2 gol, limitato dagli infortuni e dal caos societario che circondava la squadra. Avrebbe dovuto essere l’anno del suo riscatto, si trasformò invece nell’ultimo capitolo di una carriera mai decollata davvero.
Nel 2003-04, dopo la rinascita come Florentia Viola, è Riccardo Maspero a ereditare il numero. Il veterano centrocampista, arrivato dal Torino a 33 anni, rappresenta più un simbolo di esperienza. La sua stagione coincide con la promozione in Serie A attraverso lo spareggio con il Perugia, ma resta un passaggio di transizione nella storia della maglia.
La stagione 2004-05 porta a Firenze un nome di livello internazionale: Hidetoshi Nakata. Il centrocampista giapponese, reduce da esperienze prestigiose con Roma e Parma, sembrava il profilo perfetto per rilanciare il prestigio del numero 10. La realtà fu ben diversa: 20 presenze e nessun gol, con l’ex campione asiatico spesso relegato in panchina e incapace di incidere.
Chiude questo ciclo Stefano Fiore nella stagione 2005-06. Il pugliese, arrivato in prestito dal Valencia, forma con Luca Toni una coppia che funziona: la Fiorentina raggiunge il quarto posto in campionato, conquistando l’accesso ai preliminari di Champions League. Fiore ritrova smalto e continuità, dimostrando che la classe non si dimentica. Tuttavia, il club decide di non riscattarlo, chiudendo così un quinquennio in cui il numero 10 ha cercato disperatamente la sua identità perduta.
Nel 2006 arriva l’uomo che riporta prestigio alla maglia numero 10. Adrian Mutu, attaccante rumeno con un passato controverso al Chelsea, sbarca a Firenze con il desiderio di rilanciarsi. E ci riesce alla grande, diventando in cinque stagioni uno dei simboli della rinascita viola.
La sua stagione migliore coincide con la cavalcata verso la finale di Coppa UEFA 2007/08, persa contro il Rangers Glasgow ma che riportò la Fiorentina sul palcoscenico europeo dopo anni di assenza.
Il rumeno diventa rapidamente un idolo della curva Fiesole, non solo per i gol e le prestazioni in campo, ma per l’attaccamento alla maglia dimostrato in ogni partita. Trascina la squadra nei momenti difficili, segna gol decisivi, si assume responsabilità. È considerato uno dei più grandi calciatori della storia del calcio rumeno, e una parte significativa di questa reputazione è stata costruita proprio a Firenze.
Dopo l’addio di Mutu nel 2011, il numero 10 della Fiorentina torna su spalle italiane. Alberto Aquilani, centrocampista romano reduce da esperienze altalenanti tra Liverpool e Milan, trova a Firenze la sua dimensione. Dal 2012 al 2015, colleziona 105 presenze e 15 gol, dimostrando estro e precisione in mezzo al campo. Non ha l’esplosività di Baggio né la classe di Rui Costa, ma porta in campo professionalità e qualità tecnica.
Nel 2015 arriva il momento di Federico Bernardeschi. Il giovane talento cresciuto nel vivaio viola rappresenta il sogno di ogni tifoso: vedere un ragazzo fiorentino guidare la squadra con la maglia più prestigiosa sulle spalle. A soli 22 anni riceve anche la fascia da capitano, un riconoscimento che testimonia la fiducia del club e l’affetto dei tifosi.
Poi, nel 2017, la storia si ripete in modo dolorosamente familiare. Bernardeschi viene ceduto alla Juventus, riaprendo ferite mai del tutto rimarginate. Un altro talento cresciuto in casa che veste la maglia bianconera, un altro addio che lascia l’amaro in bocca.
Tra il 2017 e il 2020, il numero 10 passa rapidamente tra Valentin Eysseric, Marko Pjaca e Kevin-Prince Boateng, senza che nessuno riesca a lasciare un’impronta significativa.
Nel 2020 la maglia torna a un italiano: Gaetano Castrovilli. Il centrocampista pugliese, cresciuto nelle giovanili viola, riceve l’onore di indossare il numero più prestigioso. Per tre stagioni cerca di riconquistare la fiducia di una tifoseria che, dopo tanti passaggi a vuoto, aveva bisogno di ritrovare un’identità chiara.
Nel 2023 il numero 10 passa a Nicolás González, esterno offensivo argentino. Non è il trequartista classico che detta i tempi, ma un attaccante esterno dotato di velocità, dribbling e capacità realizzativa.
Per due stagioni, González porta il numero 10 in zone del campo inusuali per quella tradizione: sulle fasce, negli spazi aperti, negli uno contro uno. È un simbolo di come il calcio sia cambiato, di come anche i ruoli più iconici si siano evoluti con le nuove esigenze tattiche. Il suo approccio diretto, la fisicità e la determinazione lo rendono un giocatore importante per la squadra, anche se stilisticamente distante dai giocatori del passato.
La stagione 2025-26 si apre con una sfida complessa per Albert Gudmundsson. Il fantasista islandese porta sulle spalle la maglia più iconica con l’ambizione di riportare classe e magia in quel ruolo, ma l’inizio di stagione non è stato quello sperato. Le sue caratteristiche tecniche richiamano i grandi numeri 10 del passato: dribbling di qualità, visione di gioco superiore e capacità realizzativa che lo rendono pericoloso in zona gol. Tuttavia, la condizione fisica non ottimale e un inserimento tattico ancora da perfezionare stanno limitando il suo impatto in campo.
Il nodo della questione sembra essere proprio l’utilizzo tattico. Gudmundsson non è un giocatore che può essere imbrigliato in schemi rigidi. Il suo talento emerge quando può muoversi liberamente tra le linee, quando ha la possibilità di prendere palla e creare gioco secondo il suo istinto, è quanto dichiarato da Carlo Pernat. È questo tipo di interpretazione che la Fiorentina deve trovare per esaltare le sue qualità e permettergli di esprimere quel calcio d’alta scuola che i tifosi viola aspettano di vedere.
Settant’anni separano Miguel Angel Montuori da Albert Gudmundsson, eppure il numero 10 della Fiorentina conserva lo stesso fascino, lo stesso peso, la stessa responsabilità. Attraverso epoche diverse, cambiamenti tattici e rivoluzioni nel modo di intendere il calcio, quella maglia ha continuato a rappresentare qualcosa di unico: l’anima tecnica della squadra, il giocatore capace di far sognare.
Chi l’ha indossata ha dovuto convivere con i fantasmi del passato: i dribbling di Baggio, l’eleganza di Antognoni, la classe di Rui Costa. Alcuni hanno retto il confronto, altri sono stati schiacciati dal peso della storia. Ma tutti, nel bene e nel male, hanno aggiunto un tassello a una tradizione che è patrimonio del club e della città.
Oggi, quando un nuovo giocatore riceve quella maglia, sa che non sta semplicemente indossando un numero. Sta entrando in una galleria di leggende, si sta assumendo la responsabilità di essere all’altezza di chi l’ha preceduto.
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